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Christa Wolf, in forma di congedo

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[Riprendiamo la recensione al racconto August di Christa Wolf apparsa a firma di Laura Fortini su il manifesto del 04.12.2012. Immagine via jenapolis.de. C.M.]

Laura Fortini

Vi sono molti modi per prendere congedo da una situazione, da una relazione, dalla propria storia, addirittura da un secolo, in fine dalla propria vita, senza che ciò diventi una cerimonia degli addii, e il riferimento è a quanto intercorse tra Simone de Beauvoir e Jean Paul Sartre, pubblicato poi nel 1981. Christa Wolf lo ha fatto con un racconto, August, unico e singolare: un sorprendente e bellissimo racconto di congedo, scritto nel 2011, alcuni mesi prima della sua morte. Ne è protagonista August, un personaggio che, come ricorda Anita Raja nella sua prefazione, compare nelle pagine conclusive di Trama d’infanzia, risalente al 1976, in cui Wolf ha riattraversato cosa voleva dire essere una bambina tedesca nella Germania nazista e il crollo di un mondo che si riteneva certo con la guerra, i bombardamenti, la fuga di fronte alle truppe sovietiche, lo scoprire e l’apprendere l’orrore di ciò che veramente era stato.

La protagonista di Trama d’infanzia, Nelly, durante il periodo successivo alla fine della guerra soffre il freddo, la fame, la povertà, diviene grande in modo repentino, e si ammala di tubercolosi: per questo motivo trascorre un periodo di cura in un castello abbandonato del Meclemburgo adattato a sanatorio, dove incontra August, un bambino di circa dieci anni, orfano e senza parenti al mondo, mitemente ma ossessivamente bisognoso di affetto, quasi smanioso nel suo desiderio di possesso. Ad August, ormai più che sessantenne e vicino alla pensione, è dedicato il racconto, e di lui si narra una giornata trascorsa al volante di un pullman da turismo, con a bordo un gruppo di anziani in gita a Praga al ritorno verso Berlino.

Se l’estensione del tempo del racconto rispetta le regole aristoteliche dell’unità di tempo e di azione, non è così per le modalità della rappresentazione: perché August nel corso del racconto riattraversa tutta la sua vita, a partire dalla perdita della madre durante un bombardamento (il padre era già disperso in guerra), all’anno trascorso in sanatorio e a ciò che esso ha significato per lui, l’incontro con Nelly, che qui ha nome Lilo, che riecheggia nella contrazione affettuosa del diminutivo il nome della bambina scelto da Christa Wolf per uno dei suoi romanzi più belli e importanti.

August ritorna con il ricordo più e più volte proprio al periodo trascorso nella «Rocca dei tarli»: un nome quasi favoloso dato dai pazienti del sanatorio improvvisato al castello freddo come un palazzo di ghiaccio, in un dopoguerra senza riscaldamenti e con cibo scarso, morti continue e scarsa se non nulla speranza nel futuro. Ma Lilo e la sua capacità di vivere mantenendo un senso dell’umano là dove pare non essercene più diviene faro per un futuro che sarà costruito con fatica e pazienza, apprendistato e risarcimento d’amore in un momento in cui nulla è dato per scontato.

Nel racconto sono riecheggiati anche altri romanzi, perché la Germania che si attraversa è quella del dopo la caduta del muro di Berlino sì, ma che ha ancora la divisione delle due Germanie del dopoguerra nella memoria, quella de Il cielo diviso, del 1963, poi raccontata in modo altro e diverso all’indomani della caduta del muro in Che cosa resta, del 1990, per arrivare al magnifico e stupefacente La città degli angeli, del 2010, ambientato a Los Angeles, ma con in controcanto tutta la difficile storia tedesca; e gli alberi, le nuvole e i boschi che August vede scorrere dal lunotto mentre guida sono i Pini e sabbia del Brandeburgo, sfondo delle interviste e dei saggi del 1987; così come ancora echeggia la domanda su cui si apre il bellissimo Riflessioni su Christa T., del 1968, sulla necessità di riflettere intorno al tentativo di essere se stessi, che è esattamente quello che August fa, riflettere su come ha vissuto la propria vita cercando di essere, mitemente, pacatamente, se stesso, riconoscendo amore, bellezza e gratitudine là dove essi vi sono stati: nel sanatorio con Lilo, con la moglie Trude, morta da poco più di due anni, con cui ha goduto gioie semplici ed essenziali, un viaggio, un dolce fatto in casa, lo stare insieme nella pace della presenza reciproca, e chiunque abbia letto e amato i romanzi di Christa Wolf sa quanto tutto questo abbia abitato e contato nella sua scrittura, nelle sue modalità di narrazione e rappresentazione.

Quasi che Christa Wolf abbia raccolto come un mazzo di fiori tutte le sue opere, tenute insieme, strette, in un solo racconto, in forma di dono, che tiene stretto nelle sue maglie anche la storia della Germania del secondo Novecento e di un sogno, che è stato quello di essere comunisti e diversi da quanto era stato fino a quel momento. Che è anche atto di omaggio rispetto a un’altra grande scrittrice tedesca, Anna Seghers, cui Wolf è stata sempre legata da un rapporto di affetto e riconoscimento magistrale, autrice di uno dei più bei racconti di Novecento tutto, La gita delle ragazze morte, del 1963, ma risalente al 1943-44, in cui Seghers era in esilio in Messico (pubblicato da Filema nel 2000 e recentemente riproposto con il testo in lingua originale a fronte da Marsilio per le cure di Rita Calabrese). Perché le ragazze di cui scrive Seghers nel racconto sono le ragazze che moriranno, con una vertigine temporale strepitosa, nei campi di concentramento o nella guerra per parte tedesca, e alcune saranno anche responsabili di quanto avverrà; o che periranno nella resistenza, o altrimenti sopravviveranno spaventosamente negli incubi della fuga, come l’io narrante del racconto, che ha nome Netty, chiaramente ripresa in variante dalla Nelly di Trama d’infanzia. E le morbide colline, i villaggi, le nuvole, il fiume su cui ha luogo la gita delle ragazze che morranno, il Reno come l’Elba, sono gli stessi che attraversa a quasi un secolo di distanza August, ed è con quelle ragazze che August si confronta, ma da bambino che è riuscito a divenire grande andando oltre la sopravvivenza, facendo della propria vita qualcosa che avrebbe potuto essere segnato senza possibilità di ritorno dalla guerra, dalla paura, dall’isolamento, mentre non è stato così, grazie a Lilo, a Trude, alle persone che senza eroismi sono state capaci di restituirgli il senso del vivere e dell’umano, e amore, anche, per esso. E pure se ora è solo, al suo ritorno a casa «prova una specie di gratitudine perché nella sua vita c’è stato qualcosa che, se riuscisse a esprimerlo, chiamerebbe felicità».

Non esiste congedo migliore di quello che Christa Wolf è riuscita a farci dono con questo racconto, che ha per protagonista una persona come molte altre, mite e onesta, una persona perbene, lo definisce la moglie accettando la sua proposta di matrimonio. E che riesce, pure se non ha le parole per dirlo, a vedere e a riconoscere l’armonia nella propria vita, partecipando alla storia del Novecento e non per questo soccomberne.

Dedicandolo al marito Gerhard, compagno di una vita intera, Christa Wolf scrive: «nei decenni noi siamo cresciuti l’uno nell’altra. Non posso quasi dire ‘io’ – al massimo ‘noi’». Si tratta di un sentimento che non riguarda solo e unicamente la relazione tra due persone, che si sono amate e hanno vissuto l’una accanto all’altro per molto, molto tempo, ma che si allarga con questo racconto a comprendere tutte le relazioni caratterizzate dal condividere vita e sentimenti, affetti e speranze, ipotesi e proiezioni su futuri altri e migliori, in cui l’io diviene noi, magari un noi agitato e multiforme, ma è quel noi che ha guardato avanti per pensarsi diversi da quanto si ha alle spalle, la Germania su cui Christa Wolf non ha mai cessato di pensare e riflettere nel corso della sua vita e scrittura, per noi che leggiamo oggi, grati, questo racconto, il mondo così come è stato per pensarne e sperarne altri e migliori.

Laura Fortini


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